lunes, 11 de mayo de 2020


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  1. OBITUARY> Stefano Zacchetti (1968-2020), His Contribution to Buddhist Studies
  2. Re: QUERY> Did Buddhists stake something at wining debates?

OBITUARY> Stefano Zacchetti (1968-2020), His Contribution to Buddhist Studies

by Charles DiSimone
Dear Colleagues,
A moving obituary for Stefano Zacchetti, a collaborative effort by several scholars directed and compiled by Ester Bianchi, may be found here. I also paste it below.
Sincerely,
Charles DiSimone

Stefano Zacchetti (1968-2020). Contributo Agli Studi Buddhisti

Era il giugno del 2004, l’occasione il secondo convegno organizzato dal Centro di Studi sul Buddhismo dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Stefano, rientrato in Italia dal Giappone, ci aveva intrattenuti con una dotta e ricca comunicazione sulla seconda fase di sviluppo della letteratura esegetica buddhista cinese. Ad ascoltarlo si era presentato Antonino Forte (1940-2006), che si era profuso in un lungo elogio, un riconoscimento pubblico che non lasciava dubbi—se ancora potevano essercene—circa la levatura del giovane studioso poco più che trentacinquenne che ci stava di fronte. Stefano, come di consueto, aveva abbassato lo sguardo assumendo quel contegno un po’ buffo che lo contraddistingueva, per timidezza, ma anche per quella estrema modestia intellettuale e disarmante umiltà tipica di una grande mente.
Che Forte ci avesse visto giusto, lo sappiamo tutti. Non sorprende infatti leggere, tra le parole scritte all’indomani della sua scomparsa da Vincent Eltschinger (École Pratique des Hautes Études), che Stefano “era certamente, almeno in Europa e America, la più alta autorità sul cinese buddhista” dei primi secoli di trasmissione del buddhismo in Cina, una lingua “il cui studio era, a suo avviso, ancora agli albori”.
Modesto, brillante, amabile e generoso, questi sono gli aggettivi che si ripetono nelle note scritte in sua memoria in questi tristi giorni dai più insigni studiosi del settore, dai tanti colleghi e colleghe, dagli amici e amiche e da molti dei fortunati studenti e studentesse che hanno avuto l’onore di studiare con lui.
Al pari di molti altri italiani che hanno intrapreso studi sul buddhismo cinese, sono cresciuta come studiosa nell’incondizionata ammirazione per il lavoro di Stefano. Quando mi è stato chiesto di scrivere un profilo che desse conto della sua eccellenza accademica, ho subito accettato e ho pensato che, per rendere giustizia alla profondità e all’ampiezza dei suoi studi, avrei potuto rivolgermi a quella comunità internazionale di studiosi di filologia buddhista che ora tanto lo compiange. Sono gli stessi studiosi che, al nostro primo incontro a un convegno o altro simile evento, comprese le mie origini accademiche veneziane, immancabilmente mi rivolgevano un ampio sorriso e cominciavano a parlare di Stefano, delle sue doti umane prima ancora che di quelle scientifiche. Occasioni in cui io mi ritrovavo, un po’ stupidamente, a crogiolarmi in un malcelato orgoglio, come si può essere orgogliosi di un fratello maggiore che ha fatto tanta strada.
Sarà a loro che lascerò la parola per riferirci del contributo e della visione di Stefano come studioso, sintetizzando e riportando stralci delle tante lettere che ho ricevuto in risposta al mio appello. Alcune delle lettere originali, scritte con autentico trasporto e commozione, sono visionabili cliccando sui nomi dei rispettivi autori. Prima però credo sia utile introdurre Stefano con alcuni cenni biografici.
Stefano è nato a Milano il 16 gennaio 1968. Dopo avere frequentato il liceo classico a Novara, essenziale nella sua formazione, ha proseguito gli studi presso il Dipartimento di Studi sull’Asia Orientale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove nel 1994 ha conseguito la laurea in Lingue e Civiltà dell’Asia Orientale. Il profondo interesse per il buddhismo e, in particolare, una già chiara passione per le traduzioni cinesi della letteratura buddhista, lo portò a integrare i corsi di lingua e cultura cinese con gli studi indologici. Diceva di sentire un debito di gratitudine nei confronti della scuola veneziana, in particolare per i suoi due maestri italiani, Maurizio Scarpari, che l’aveva introdotto allo studio del cinese classico, e Giuliano Boccali, suo professore di sanscrito e di filosofia dell’India e, più tardi, suo tutor di dottorato (G. Boccali, Venetian Indology).
Della sua tesi di laurea, incentrata su “Le versioni cinesi del Sūtra del diamante”, Paul Harrison (Stanford University)—principale esperto al mondo della Vajracchedikā Prajñāpāramitā—scrive: “Conoscendo la qualità del lavoro di Stefano, sapevo che avrei dovuto leggere la sua tesi di laurea. Il problema è che era scritta in italiano, una lingua di cui non avevo la benché minima conoscenza. Così mi sono costretto a studiarlo… Posso dire che ne è decisamente valsa la pena. Stefano rimane l’unico collega di cui abbia letto la tesi di laurea, per non parlare del fatto che ho imparato una lingua straniera per farlo!” Anche Michael Radich (Heidelberg University) sostiene che “l’idea di imparare l’italiano per avere accesso agli scritti di Stefano non è pura astrazione” e ci confida di averne intrapreso lo studio proprio a questo scopo.
Tra il 1994 e il 1995, Stefano trascorse un semestre a Leiden in borsa di studio. Ebbe così modo di studiare con Tilmann Vetter (1937-2012)—tra i suoi principali maestri nell’ambito degli studi buddhisti—e con Erik Zürcher (1928-2008), che lo indirizzarono allo studio delle traduzioni buddhiste arcaiche di An Shigao e Dharmarakṣa. Di Erik Zürcher, lo stesso Stefano racconterà: “Giunsi a Leiden nell’autunno del 1994 … con già un grande debito nei confronti del maestro con cui speravo di poter studiare. Che ci crediate o meno, The Buddhist Conquest of China è stato il primo libro scritto in inglese che abbia letto … Non credo di averlo visto più di cinque volte durante quel semestre, eppure posso dire in tutta onestà che l’influenza diretta esercitata da Erik Zürcher sulla mia ricerca e sulla mia carriera (senza menzionare ovviamente l’influenza indiretta tramite la sua opera) è sproporzionata rispetto a queste limitate occasioni di incontro. Fu lui a suggerirmi un argomento per la tesi di dottorato che si sarebbe poi rivelato estremamente gratificante sul piano accademico e per molti aspetti cruciale per la mia carriera. Zürcher mi permise anche di pubblicare il mio primo articolo accademico e giunse persino a scrivere di suo pugno i caratteri cinesi del testo sostenendo, dopo avere dato un’occhiata ai miei spaventosi caratteri, che a Brill avrebbero potuto non avere familiarità con la mia calligrafia” (S. Zacchetti, A Unique Trajectory: Erik Zürcher’s Studies of Chinese Buddhism, Lectio Inauguralis in commemorazione di Erik Zürcher, Academiegebouw di Leida, 12 Febraio 2014).
L’articolo menzionato da Stefano in questo bel passaggio fu pubblicato su T’oung Pao nel 1996. Secondo Tim H. Barrett (SOAS University of London), questa sua prima pubblicazione, incentrata come la tesi di laurea sul “Sūtra del diamante”, portava già “un contributo importantissimo e originale allo studio delle traduzioni del Canone buddhista”. Barrett aggiunge che, dopo averla letta, si era sentito rincuorato all’idea che Zürcher avesse finalmente trovato un degno erede dotato dello stesso rigore filosofico e della stessa passione per la trasmissione del buddhismo in Cina e in grado di proseguirne l’opera.
In effetti, durante gli anni del dottorato, Stefano trascorse altri periodi nell’università olandese. In una di queste occasioni avvenne il primo incontro con Paul Harrison, che racconta: “Nel 1996, avevo organizzato un simposio sulle opere di An Shigao presso l’International Institute for Asian Studies di Leiden. Tilmann Vetter mi aveva chiesto di includere Stefano tra i partecipanti benché fosse ancora uno studente e io sono lieto di averlo fatto”. La figura di An Shigao rimase uno dei principali ambiti di studio di Stefano, che si impose presto come l’indiscussa autorità in materia.
Stefano conseguì il titolo di dottore di ricerca presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia nel 1999 con una tesi dal titolo “La più antica versione cinese della Pañcaviṃśatisāhasrikā Prajñāpāramitā”, uno studio sulla versione estesa della Prajñāpāramitā a cura di Dharmarakṣa. La tesi sarà successivamente rielaborata nella sua più importante monografia, In Praise of the Light (2005).
Dopo il dottorato, Stefano tenne dei corsi di sinologia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia e il Master in Studi Interculturali dell’Università di Padova (2000-2001), finché Seishi Karashima (1957-2019)—l’altro suo maestro di studi buddhisti—gli propose una posizione come professore associato di filologia buddhista sino-indiana presso l’International Research Institute for Advanced Buddhology della Sōka University di Tokyo.
L’arrivo a Tokyo segnò l’inizio del connubio con Seishi Karashima, che si sarebbe protratto senza interruzione fino alla prematura morte di quest’ultimo lo scorso anno. Come riferisce Alexander von Rospatt (University of California, Berkeley), “Stefano e Karashima non erano solo colleghi, da un punto di vista accademico erano anche spiriti affini, lavoravano entrambi sui primi secoli di trasmissione delle scritture indiane in Cina, un ambito degli studi estremamente importante su cui oggi sappiamo molto di più proprio grazie al loro contributo”. Questo periodo di intenso lavoro e collaborazione con Karashima-sensei, e con altri colleghi basati in Giappone, fu fondamentale per la sua maturazione scientifica. Tra i suoi interlocutori privilegiati, si possono menzionare Tōru Funayama, Toshinori Ochiai, Akira Yuyama, Florin Deleanu, Hubert Durt (1936-2018), John McRay (1947-2011) e Jan Nattier, ritratta nell’immagine con Stefano, Fang Yixin 方一新 e Karashima Seishi (Soka University).
Mi sembra che lo spirito che animava Stefano in quegli anni sia ben sintetizzato da un episodio narrato da Nicoletta Celli (Università degli Studi di Bologna), che mi piace riportare per intero: “Tutti i ricordi di Stefano durante il periodo giapponese sono particolarmente vividi nella mia memoria e, tra i tanti, specialmente uno mi è caro. Nei mesi del mio soggiorno in Giappone viaggiavo molto, visitando quanto più potevo senza tralasciare il più piccolo museo o il tempio più remoto. Un giorno, Stefano, assolutamente non pigro ma costituzionalmente sedentario, incuriosito dai miei tour e un po’ in colpa per essere restio a spostarsi persino da Hachioji a Tokyo (andavo a trovarlo sempre io), si lasciò convincere a darci appuntamento a Kyoto per visitare insieme un museo e una mostra. Arrivato il tempo dell’incontro, puntuale come il destino lo attendevo alla stazione ferroviaria quando, invece di Stefano, mi raggiunse al cellulare una sua telefonata che, con tono mortificato e un po’ colpevole, mi informava che si trovava sul treno partito da Tokyo, ma di aver ormai superato Kyoto e di essere diretto a Osaka dove lo aspettava un manoscritto… Fosse stata qualsiasi altra persona avrei protestato con un poco di (temporaneo) risentimento, ma l’idea di quest’amico attratto magneticamente dal manoscritto al punto da tirare dritto alla volta di Osaka, bypassandomi quasi senza remore, mi ha divertita tanto subito, e ancora oggi sorrido al solo ricordo, come abbiamo continuato a fare negli anni con Stefano”.
Rientrato in Italia nel 2005, fino al 2012 fu ricercatore universitario presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, incaricato di insegnamenti di lingua cinese moderna. Nel 2005 accettò anche un insegnamento di lingua cinese classica e di letteratura cinese presso l’Università di Torino (trasformatosi l’anno successivo in seminario). L’impegno presso la sede distaccata di Ca’ Foscari a Treviso non gli impedì di continuare parallelamente i suoi studi e di coltivare le sue collaborazioni—spesso via Skype—con molti dei più insigni studiosi del settore. Una consuetudine che avrebbe preservato negli anni a venire, un tema ricorrente nei ricordi di molti, come Jonathan Silk (Leiden University), amico fraterno, Bhikkhunī Dhammadinnā (Dharma Drum Institute of Liberal Arts), Vincent Tournier (École française d’Extrême-Orient) e tanti altri.
Nell’autunno del 2011, Stefano trascorse un semestre come Numata Visiting Chair in Buddhist Studies a Berkeley. Robert Sharf (University of California, Berkeley) ricorda con nostalgia “il memorabile seminario sullo Yin chi ru jing 陰持入經 di An Shigao” e Alexander von Rospatt aggiunge che “Stefano si era guadagnato l’ammirazione e l’amicizia di colleghi e studenti, lasciandosi dietro un ricordo duraturo”. D’altronde, sembra che l’amore fosse reciproco. Quando anni dopo gli ho scritto di quanto lo ammirassero a Berkeley, mi ha risposto: “Sì, ho lasciato il cuore e molti cari amici in California”.
Infine, nel 2012 ottenne il posto come Numata Professor of Buddhist Studies presso il Balliol College dell’Università di Oxford, un traguardo meritato che ne sanciva il valore accademico. Qui ha insegnato corsi sul buddhismo (insegnamenti e pratiche, storia e società) e seminari di lettura della letteratura buddhista sanscrita e cinese, circondato dai tanti studenti che sceglievano Oxford per poter studiare con lui, dagli studiosi di buddhismo nel Regno Unito (Lucia Dolce, anche lei cafoscarina, Tim Barrett, Antonello Palumbo, Vincent Tournier, per menzionarne alcuni) e dai tanti colleghi di Oxford di ambiti anche distanti, affascinati dalla sua grande erudizione e dalla sua curiosità intellettuale da vero umanista (nell’immagine che ho scelto per copertina è ritratto con Alexis Sanderson [professore emerito a Oxford] e Harunaga Isaacson [University of Hamburg] nel salotto del Balliol College, dove Stefano aveva orgogliosamente introdotto una macchina per il caffè espresso). Secondo Vincent Tournier, “la cattedra a Oxford fu una vera consacrazione per lui: se era ovvio per chiunque che era perfetto per il luogo, alla luce dell’eccelsa qualità del suo lavoro e delle sue maniere da gentleman, Stefano era modesto e si sentiva fortunato d’avere avuto una simile opportunità”. Come dice Ann Heirman (Universiteit Gent), “era felice di essersi trasferito là, amava la vita del college, ne era fiero, era il suo habitat”. Per Robert Sharf, il segreto di Stefano a Oxford era di essere riuscito ad “assumere modi non pretenziosi, eppure privi di ogni condiscendenza”, e a osservare il tutto “con l’occhio gentile di un astuto antropologo, finendo col trovare la cultura di Oxford tanto divertente quanto intellettualmente stimolante”.
In varie occasioni, nel corso degli anni successivi, Stefano è tornato alla propria alma mater per partecipare a iniziative e convegni. Nel 2014 e 2015, ad esempio, è stato tra i docenti del Master in Yoga Studies diretto da Federico Squarcini (Università Ca’ Foscari), arricchendone il programma con lezioni incentrate su mente e pratiche meditative nel buddhismo cinese arcaico e nel buddhismo mahāyāna antico. L’ultimo evento veneziano che l’ha coinvolto è stato il convegno internazionale sulla traduzione tenutosi nell’aprile 2019 in occasione del 25° anniversario della sede di Ca’ Foscari a Treviso, a cui ha partecipato con uno splendido intervento dal titolo “Translation theories and practices in medieval Chinese Buddhism”.
Stefano era anche un membro molto attivo del Glorisun Global Network for Buddhist Studies coordinato da Jinhua Chen (The University of British Columbia). Il suo coinvolgimento in vari summer programs, winter programs e intensive programs ha permesso a molti studenti delle più diverse università (inclusi alcuni italiani) di studiare con lui. Ricordo di averlo incontrato in una di queste occasioni a Shanghai, e di avere apprezzato la cura e l’entusiasmo che metteva nell’insegnamento e la profonda e diffusa ammirazione per lui da parte degli studenti iscritti al corso. Come racconta Jinhua Chen, “avrebbe dovuto insegnare un seminario on-line per il corso intensivo sponsorizzato da Frogbear e Princeton questa estate. Ora sono riluttante a togliere il suo nome dalla lista dei relatori…”.
In questi mesi stava ultimando la sua seconda monografia in inglese, un lavoro incentrato sul Da zhidu lun 大智度論. Il testo era alle ultimissime battute (“mancano solo i ringraziamenti”, aveva detto a Jan Nattier qualche giorno prima della sua scomparsa) e sarà pubblicato presto nella collana «Hamburg Buddhist Studies» curata da Michael Zimmermann. Le prime fasi di questa ricerca sono documentate nel video di una conferenza tenuta da Stefano a Oxford nel 2013 che credo molti gradiranno vedere (VOX Voices from Oxford).
Come si evince dalla lista delle sue pubblicazioni (redatta a tempo record in questi giorni da Zhao You 趙悠, dell’Università di Pechino), la ricerca di Stefano era incentrata sulle traduzioni dei primi secoli di trasmissione del buddhismo in Cina ed era resa possibile dalla sua perfetta padronanza della complessa lingua di quei testi. Più precisamente, come sottolinea Bhikkhunī Dhammadinnā, “il contributo filologico secondo me più importante del lavoro di Stefano allo studio della trasmissione del buddhismo indiano in Cina, e dunque allo studio del buddhismo indiano attraverso lo studio della trasmissione testuale (canonica ed esegetica) in Cina, emerge dall’intersezione tra la traiettoria ‘semantica’ nell’approccio ai testi e la traiettoria di linguistica storica. Stefano era competentissimo a perseguire entrambe. Praticava una lessicografia informata dalla filologia. E la ‘sua’ filologia era una filologia di sensibilità e profondità squisitamente umanistiche. L’intersezione di queste due traiettorie mi pare sia stata la sua chiave di accesso privilegiata per studiare e interpretare l’intersezione tra il mondo linguistico e storico-religioso buddhista cinese e quello indiano, scrivendo così pagine fondamentali nello studio del buddhismo indiano, cinese e sino-indiano”.
Benché per lui “le sue pubblicazioni non fossero altro che primi tentativi di comprendere un dato argomento, per i suoi colleghi ciascuna di esse era un risultato straordinario. È corretto affermare che ogni suo articolo, per non parlare della sua superba monografia, ha prodotto un contributo fondamentale allo sviluppo degli studi” (Jan Nattier).
I più importanti contributi di Stefano alla ricerca possono essere riferiti a quattro principali ambiti di indagine, che egli stesso menzionava fra i suoi interessi e progetti nella sua pagina personale dell’Università di Oxford. Il primo concerne la figura e l’opera di An Shigao. “Fu lui a comprendere che lo Yin chi ru jing (T 603) corrisponde a una sezione del Peṭakopadesa in Pāli, una scoperta davvero eccezionale” (Paul Harrison), “seguita da una serie di altri articoli altrettanto sensazionali su opere di An Shigao che si ritenevano perdute e che sono state rinvenute di recente nel Kongōji 金剛寺 in Giappone” (Jan Nattier). Più in generale, “si tende oggi a dimenticare che, prima dei numerosi studi di Stefano, si era soliti sorvolare sul linguaggio oscuro e impenetrabile di queste prime traduzioni. Se oggi non sono più tali … lo dobbiamo a Stefano” (Antonello Palumbo, SOAS University of London).
In secondo luogo, Stefano ha lasciato un contributo impagabile anche per quanto concerne gli studi sulla Prajñāpāramitā. La sua monografia In Praise of the Light, sul Guangzan jing 光讚經 (T 222), è un lavoro di grande erudizione sulla prima traduzione cinese della Pañcaviṃśatisāhasrikā Prajñāpāramitā, che include edizione critica e traduzione parziale del testo. Ma Stefano ha studiato per anni l’intero corpus della letteratura della Prajñāpāramitā, “accumulando nella sua mente e nei suoi appunti una conoscenza ineguagliabile che avrebbe fatto impallidire persino Lamotte” (Antonello Palumbo). La sua voce di trentanove pagine per la Brill Encyclopedia of Buddhism è una “trattazione approfondita e completa di questa tentacolare letteratura. Con termini lucidi, dà conto con profonda conoscenza di una complessa e intricata rete di testi correlati e costituisce una base essenziale per tutti gli studi futuri su questa tradizione testuale” (Alexander von Rospatt).
Il terzo ambito su cui gli studi di Stefano sono destinati a lasciare un segno significativo concerne lo studio della storia delle edizioni cinesi del Canone buddhista. Il tema era già al centro di un seminario che aveva tenuto all’interno del corso di indologia a Venezia alla fine degli anni Novanta e che avevo avuto il privilegio di seguire. Le sue dispense sono rimaste per me un punto di riferimento per anni, fino alla pubblicazione di voci e studi dedicati (2010, 2016 ecc.). In realtà, “la migliore trattazione in inglese—e a mia conoscenza in qualsiasi lingua—sulla formazione ed evoluzione del Canone buddhista cinese” (Jan Nattier) era già inclusa in un sotto paragrafo della sua monografia In Praise of the Light, che costituisce per Antonello Palumbo “un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia affrontare lo studio di un qualsiasi testo nel Taishō”. Come spiega Michael Radich, Stefano “aveva una profonda e lucida conoscenza dei processi attraverso cui il Canone si è formato, è stato trasmesso, si è conservato ed è stato contestato, delle forze dietro questi processi e dei loro effetti”.
Il quarto ambito “su cui Stefano ha indugiato con ottimi risultati sono la formazione, la natura, le strategie e gli obiettivi della prima letteratura esegetica buddhista cinese” (Michael Radich). Spicca al riguardo il suo studio sul commentario del terzo secolo dello Yin chi ru jing (T 1694), “magistrale trattazione di un testo particolarmente complesso” (Jan Nattier). Anche la sua monografia in corso di stampa dedicata al Da zhidu lun 大智度論 [T 1509] (*Mahāprajñāpāramitā-upadeśa) and the History of the Larger Prajñāpāramitā rientra in questo filone di indagine. Secondo Vincent Tournier, “un contributo fondamentale di questo studio è l’analisi dei fenomeni di contaminazione reciproca fra sūtra e letteratura esegetica. Nel caso specifico della letteratura della Prajñāpāramitā, Stefano identifica con maestria come incrementi esegetici rispecchiati nel Da zhidu lun sono stati canonizzati all’interno della recensione estesa del sūtra in India. Questo è fondamentale sia per la storia del sviluppo della letteratura della Prajñāpāramitā, sia per la collocazione storica del Da zhidu lun. In effetti, ci sono pochissime persone nel nostro campo con una tale sensibilità per le dinamiche della trasmissione testuale”.
Per quanto forse meno rilevanti nell’ottica dell’avanzamento degli studi, anche le sue pubblicazioni in italiano sono degne di nota. I due volumi Fazang. Trattato sul leone d’oro (Jin shizi zhang 金師子章) del 2000 e Storie delle sei perfezioni: racconti scelti dal Liu du ji jing 六度集經 del 2013 includono un’ampia introduzione, l’edizione critica del testo e la traduzione annotata. A questi si aggiungono il lungo saggio sulla storia del buddhismo dagli Han ai Tang apparsa nei volumi sulla Cina delle Grandi Opere di Einaudi curati da M. Scarpari (2010), che Palumbo definisce “la migliore nel suo genere che abbia mai letto”, la voce sul Canone buddhista cinese per il Dizionario del Sapere Storico Religioso del Novecento a cura di A. Melloni (2010) e numerosi articoli.
Sorprende quanto le descrizioni della visione di Stefano come studioso risuonino le une con le altre, ad esempio nel riferirsi alla sua capacità di “unire l’occhio per i dettagli, necessario in ogni lavoro filologico, con l’abilità di vedere il quadro più ampio e di porre le domande importanti” (Tim H. Barrett), o “di vedere la foresta e gli alberi, e di riuscire a mostrarli anche a te” (Antonello Palumbo), tanto che “spesso riusciva a coniugare con superba precisione inventiva e virtuosismi filologici” (Michael Radich). Un altro tema ricorrente, connesso al precedente, è la sua capacità di fare appassionare chiunque anche ad argomenti astrusi: “i suoi lavori sul più arcano e tecnico dei temi riuscivano sempre a essere vivaci e coinvolgenti e il suo entusiasmo e la dedizione per i suoi studi rimangono di grande ispirazione” (Robert Sharf).
Infine, tornano i temi dell’umiltà intellettuale e della generosità di Stefano, il tutto senza false modestie, come ci rivela Ann Heirman parlando della sua “capacità di essere umile e comunque orgoglioso di quanto raggiunto, di condividere con generosità pur rimanendo giustamente testardo anche su questioni che altri avrebbero considerato di dettaglio, perché i dettagli, avrebbe detto Stefano, sono altrettante porte su molto altro da scoprire”. E ancora: “Quello che ammiravo in lui non era solo la sua eccellenza accademica, ma anche la sua generosità bodhisattvica e la sua compassione, la cura genuina per i colleghi e per gli studenti” (Jinhua Chen). Gli fa eco Claudio Cicuzza, che lo ricorda alla conferenza dell’IABS, a Losanna: “Nei rari momenti in cui non era occupato a discutere di testi cinesi con i suoi colleghi, si dedicava a facilitare l’incontro fra giovani studiosi e celebri professori: fu lui a presentarmi Lambert Schmithausen”.
Ho potuto riportare solo alcuni stralci delle riflessioni che mi hanno inviato colleghe e colleghi amici di Stefano, ma vi invito a prendere visione delle belle lettere allegate a questa mia sintesi. Nel loro insieme vi restituiranno la profondità e al contempo la vivacità del nostro ancora giovane studioso, caratteristiche che valgono a descrivere sia la sua produzione scientifica sia la sua persona e le sue qualità umane.
Lo spirito critico che permea gli studi di Stefano e che lo spingeva a sfidare ogni verità data è descritto in questi termini da Michael Radich: “Aveva un’acuta comprensione di come molte delle moderne storie del buddhismo cinese siano formate da tropi forgiati dalla tradizione stessa e aveva una straordinaria capacità di vedere dietro gli angoli, di immaginare alternative”. Su questa scia, mi piace chiudere questo profilo con un monito che, a quanto riferisce uno dei suoi studenti veneziani, Stefano soleva ripetere in classe e che mi sembra rappresenti molto bene lo spirito dello studioso e del maestro che in lui si combinavano così bene: “Il dogmatismo è nemico di ogni scienza. Ricordatevelo in tutto quello che farete da grandi”.
Ester Bianchi
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Re: QUERY> Did Buddhists stake something at wining debates?

by Karl-Stéphan Bouthillette
To continue on our colleague Jenkins' excellent discussion, debates were a very ancient institution in India, adopting court (judicial) language and ritual connotations.
Debates do not only happen between opponents coming from opposing creeds, but also, if not especially, within the same establishment or 'tradition'. In fact, Vincent Eltschinger (2014) argues that it is not until the 5th century that debates among competing sects become prominent.
In addition to Jenkins' list of stakes, one might thus add institutional titles and the right to teach a certain doctrine. In this case, such 'rituals' are not totally alien to the workings of universities.
One point which I consider of utmost importance, and which is often forgotten with our habit of focusing solely on material and worldly stakes:
The soteriological value of a doctrine is also at stake in debate, as numerous debaters, like Bhāviveka for example, will argue that, if a doctrine is incoherent it cannot possibly lead to liberation.
There are numerous contributions to the topic of debate. One of my favorite, to signal the eventually desastrous consequences of the practice for Buddhism, is Giovanni Verardi's "Hardships and Downfall of Buddhism in India".
My recent book, "Dialogue and Doxography in Indian Philosophy Points of View in Buddhist, Jaina, and Advaita Vedānta Traditions", tries to collect the most relevant ones.
Kindly,
Karl-Stéphan
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